Il poliglotta dei media digitali.

Gianluca Diegoli
Gianluca è un poliglotta dei media digitali. Abusa di internet dal 1995 e qualsiasi canale ci sia on line lui c’è. È su Tumblr, Twitter, Facebook, Medium, Instagram, Telegram, WhatsApp, LinkedIn e Messenger, ha un sito, un blog, un podcast, una newsletter. E in ogni canale parla un linguaggio differente. Su Instagram utilizza le fotografie per raccontare la sua Emilia con l’hashtag #emiliaisillinois, nei suoi podcast utilizza la voce e online le parole scritte. Scrive da sempre, “un po’ per scherzo, un po’ per passione e un po’ per non fare sport”. Nel 2004 apre uno dei blog di marketing più longevi e conosciuti in Italia: “minimarketing.it”. Nel 2009 dopo 15 anni di management (e di passione) nel marketing decide di cambiare il proprio lavoro: svolgerlo in modo indipendente. Lascia il lavoro da dipendente, inizia a lavorare in proprio come independent marketing strategy advisor. Nel 2012 fonda la “scuola” di skill digitali Digitalupdate.it.

 

 

Intervista

Nella prima tesi del tuo e-book “91 discutibili tesi per un marketing diverso”, sostieni che con l’avvento del digitale il marketing sia morto. Qual è la tua idea di “marketing diverso” e quali sono i consigli che ti sentiresti di dare a chi sta lanciando la propria attività per auto promuoversi e costruirsi una community?

Nel 2008 il marketing era quello tradizionale o almeno era quello che tutti associavano a quella parola. Il digitale avrebbe da quel momento in poi sconvolto in modo ancora più esponenziale i budget, le modalità, le agenzie, il settore nel suo complesso. Il marketing non è morto, ovviamente, perché non morirà mai: ovunque ci saranno persone e aziende servirà il marketing. Quello che è cambiato per sempre è che le persone sanno di avere un potere enorme, e non hanno paura a usarlo (a volte pure troppa poca paura). Oggi nessun brand può vivere senza passaparola positivo, e ogni brand costruisce la sua reputazione anche attraverso la conversazione. E le conversazioni da dove nascono? Da buoni contenuti. Da oggetti utili che le persone vogliono leggere, vedere, ascoltare. Dal dono che fai agli altri, in ultima istanza. Oggi il web esplode di contenuti, ed è diventato più difficile emergere, ma non per questo non ci si deve tentare. Si tratta di trovare la nicchia, il tono, la audience giusta. E amarla in modo sincero, perché ci vorrà tempo prima di autopromuoversi, quindi se lo fai contando il ritorno giorno per giorno, non arriverai mai al traguardo. In generale io non ho mai pensato di “costruire una community”, né tantomeno di monetizzarla. Quindi non sono forse la persona giusta per rispondere. Per me la condivisione era un valore in sé: chi vuole ascolta o legge e basta, chi vuole partecipa, senza obblighi o funnel come ora sembra necessario fare.

 

C’è un vecchio proverbio che dice che bisogna baciare tante rane prima di trovare un principe. E questo vale anche per il lavoro. Bisogna sperimentare di continuo per trovare il progetto giusto cui dedicarsi. Tu hai moltissimi side projects digitali. Dai tuoi canali Tumblr ai tuoi libri. Quanto conta per te la sperimentazione creativa? E come fare a capire su quali progetti puntare e quali invece chiudere?

In realtà io sono uno che ci pensa sù tantissimo prima di iniziare cose impegnative – ci ho pensato cinque anni prima di licenziarmi davvero, per dire – ma il digitale ti dà modo di sperimentare a costi molto bassi, e le persone – le singole persone intendo – hanno un vantaggio ulteriore, che non devono rendere conto del ROI a nessun capo, a nessun azionista, a nessuno. Ho perso tempo col mio Tumblr sui negozianti e nessuno l’ha letto? Amen. Per fortuna non è successo. Ma altre volte sì. Siamo come venture capitalist: se il 10% delle cose funziona, ci ripaghiamo con gli interessi il restante 90%. Seguo le raccomandazioni di Nassim Taleb, quello del Cigno Nero: “rischia su ciò che ha rare possibilità di guadagno ma nessun rischio fatale”. Poi sono uno che si annoia facilmente: ciò fa di me un pessimo startupper, e un ottimo consulente. Tendo a scappare, dopo un po’, da solo, dopo aver aggiustato le cose. O almeno averci provato.

Siamo come venture capitalist: se il 10% delle cose funziona, ci ripaghiamo con gli interessi il restante 90%.

Oggi la formazione e il Continuous Learning sono fondamentali per adattarsi a un mercato del lavoro sempre più dinamico e far fronte alla trasformazione digitale. Tuttavia in Italia solo il 29% della forza lavoro possiede elevate competenze digitali e solo l’8,3% dei lavoratori segue corsi di formazione. Tu sei un consulente, socio di una società di formazione, ma anche un docente universitario. Quanto conta, per te, la formazione professionale e qual è oggi il modo migliore per continuare ad imparare?



La formazione continua è l’assicurazione sulla vita (lavorativa). Non ci sono altri paracaduti che rimanere appetibile sul mercato, diventare “antifragile”, per citare sempre Taleb: cioè fare in modo che i cambiamenti abbiano un effetto positivo o neutrale su di te. Non puoi più contare sulle protezioni esterne, purtroppo. Abbiamo invece una generazione – la mia – abituata ad aspettare solamente dalla propria azienda la formazione, a cullarsi dietro titoli aziendali, che solo nel momento in cui si trova fuori, nel mercato del lavoro, comprende che ci sono persone più aggiornate, più competenti. Non perché siano più intelligenti, ma solo più previdenti. Oggi possiamo imparare in più modi di quanti ce ne siano mai stati nella storia umana. In aula a pochi chilometri, online, in modalità mista, su praticamente ogni argomento. A volte perfino completamente gratis, se sai l’inglese quantomeno. Il percorso giusto è sempre a onde: si parte online e in aula, salita ripida e faticosa. Poi scendi studiando e cercando da solo, approfondendo. Poi di nuovo un passaggio in aula, per farti superare uno step ulteriore, poi approfondimento successivo solitario, e via così.

 

Come scrive Shane Snow nel suo libro Smartcuts, lavoriamo duro, ma di rado ci chiediamo se stiamo lavorando in modo intelligente. Il tuo blog si chiama “Minimarketing”, scegli di lavorare con pochi clienti ogni anno, crei sinergie così da ottimizzare tempo e risorse, hai un modo di lavorare molto “lean” che punta a fare meno, meglio. Partendo dalla tua esperienza, come si potrebbe diffondere un approccio al lavoro più smart in un Paese, come l’Italia, dove il tasso di produttività è tra i più bassi in Europa, ovvero si spreca un sacco di tempo in compiti e riunioni inutili?

Dovrebbe esistere un patto tacito tra committenti e consulenti, agenzie, professionisti. Tu mi dai il meglio, io non ti faccio perdere tempo inutile. Parlo di viaggi di chilometri “alla corte del re” imposti per ragioni interne all’azienda, inutili Powerpoint riassuntivi che occupano tempo che sarebbe meglio speso lavorando per il cliente, riunioni fiume in cui nessuno si è preparato prima. E questo spesso da entrambe le parti, senza esclusione di colpe. Non è realistico un settore fatto solo di freelance, e nemmeno di network di freelance, ma è necessario snellire i riti, sia da parte delle agenzie che delle aziende, perché così non si va da nessuna parte. Si crea frustrazione: e con la frustrazione non attiri di certo i talenti e i giovani, abituati a un ritmo e modalità informali.

La formazione continua è l’assicurazione sulla vita (lavorativa).

 

Qualche domanda veloce

Online utilizzi molti canali (Twitter, Tumblr, Newsletter, Blog…), se potessi sceglierne un solo canale on line attraverso cui veicolare tutta la tua comunicazione, quale sceglieresti?

Di certo in questo momento la newsletter. È un mezzo molto flessibile, che raggiunge senza intermediari le persone che mi vogliono leggere, e consente a coloro che non mi vogliono più leggere di andarsene comodamente. Non ci sono particolari dati e profilazioni coinvolti.

Vivi e lavori in Italia – per l’esattezza a Bologna. Se decidessi di vivere e lavorare in un’altra città, dove andresti?

Amo Milano, soprattutto ora. È il centro dove succedono le cose. A volte penso di scappare dalla burocrazia fiscale italiana (“prendete tutti i soldi dal conto corrente e lasciatemi lavorare”) e rifugiarmi in un’isola croata a scrivere. Poi mi sveglio e prendo il treno per Milano.

Cosa ti spinge di più a lavorare? Fare soldi (making money), o fare qualcosa che dia un senso alla tua vita e abbia un impatto sul mondo (making meaning)?

Be’, i soldi non fanno schifo a nessuno. Ma non sarei capace – ahimé neanche volendo, per timidezza e ritrosia – di passare quel limite etico di sfruttamento della propria immagine a fini di lucro, e spesso di circonvenzione di illusi, che vedo prosperare in giro. Amen, posso dire che nessuno è mai stato illuso da minimarketing. Sull’impatto sul mondo, sono realista. Come marketer non mi definirei uno che contribuisce al miglioramento del mondo, anche se oggi va di moda lavorare perché i brand prendano posizione e abbiano una “purpose”, il why, ecc. ecc. Al miglioramento del mondo cerco di contribuire nel mio piccolo quotidiano privato.

Se trovassi una macchina del tempo (funzionante…) e potessi fare un solo viaggio, dove andresti a vivere? Nel passato o nel futuro?

Be’ nel futuro di sicuro. Sono sicuro che tutto quello che immaginiamo non si realizzerà. E quello che non immaginiamo invece diventerà realtà. In fondo internet è stato uno scherzo della storia, totalmente imprevisto.

Se potessi scrivere una sola parola su un grosso billboard in Piazza Maggiore a Bologna, quale parola sceglieresti?

Empatia.

Di tutto il marketing che hai visto in giro per negozi, qual è la frase che più ti ha colpito?

Quello del macellaio che dopo la legge sui cookie prometteva di dimenticare chi fossimo e cosa avessimo comprato appena fossimo usciti dal negozio. Meravigliosa, è diventata virale e continua a girare indefinitamente.