Satispay: Dalla Best Practice alla Next Practice.

Alberto Dalmasso
Sul sito di Satispay, nella sezione “Team”, tutte le 55 persone che lavorano nella giovane startup di pagamenti via smartphone, sono ritratte con un grosso fucile intergalattico in mano. Quando ho chiesto ad Alberto Dalmasso, Ceo e cofondatore della app, come mai questa scelta, lui mi ha risposto così: «Perché siamo pronti a sfidare i giganti della finanza digitale» e questa risposta ben sintetizza lo spirito combattivo, ma al contempo ironico, di Alberto e, più in generale, di tutta la sua azienda. Satispay nasce per soddisfare un bisogno di mercato molto semplice e concreto: semplificare la vita delle persone. Rendere i pagamenti facili e accessibili per tutti grazie a un innovativo servizio utilizzabile via smartphone. Lanciata a Cuneo, in pochi anni, Satispay si è diffusa a macchia d’olio in tutto il Nord Italia e oggi conta decine di migliaia di esercenti convenzionati, con centinaia di nuove registrazioni ogni giorno, ha raccolto decine di milioni di finanziamento, ha all’attivo centinaia di migliaia di download dell’applicazione, con una crescita delle registrazioni mese su mese del 30% e genera transazioni che sono intorno ai 5.000.000 euro al mese, con un valore medio di circa 18 euro a transazione.

 

 

Intervista

Come è nata l’idea di Satispay e perché pensi che oggi sia possibile entrare in un mercato così complesso e inaccessibile come quello dei pagamenti via smartphone?

Il mondo finanziario ha sempre avuto delle barriere all’ingresso molto elevate e questo lo ha protetto da nuovi entranti e nuovi servizi. Per contro, lo hanno tenuto assopito, non gli hanno permesso di vedere quello che stava succedendo nel mondo, quali fossero i cambiamenti del mercato e i bisogni reali delle persone. Oggi però la tecnologia ha creato un’onda di innovazione che è molto più alta delle barriere all’ingresso, dando così la possibilità a una serie di attori (fra cui noi) di tuffarsi nel loro mercato, dove vince chi è più veloce, non chi è più grande. Da consumatori stufi di tutte le perdite di tempo e frizioni tipiche di una società che ruota ancora fortemente intorno al denaro contante, abbiamo capito che serviva una rivoluzione radicale per cambiare le cose, una rivoluzione che nessuno degli attori assopiti del mondo finanziario era pronto a realizzare, ma che noi avremmo potuto creare sfruttando appieno le opportunità offerte dalle nuove tecnologie.

 

Un bellissimo film di Buster Keaton, “La palla n. 13”, si apre con questo proverbio: “Non provare a fare due cose contemporaneamente e aspettarti di fare bene entrambe”. Qualsiasi sia il lavoro che una persona vuole inventarsi, dovrà dedicarci molto tempo e molta energia. Quindi tanto vale fare una sola cosa in cui si crede moltissimo. Oggi Satispay è un progetto molto ambizioso e molto grande ma, come tutti i progetti, è iniziato in piccolo. Quando hai capito che Satispay era il progetto giusto cui dedicare tutto il tuo tempo e le tue energie? E come si fa a capire quale sia l’idea giusta su cui investire?

Ho capito presto che era un’idea su cui investire, ma naturalmente questo non significa che avessi la certezza che avrebbe potuto funzionare. Quando decidi di partire con un progetto imprenditoriale ti prendi sempre un rischio, che in fondo non ti abbandona mai. Nel caso mio e di Dario (Dario Brignone, co-founder insieme con Alberto di Satispay, a cui poi si è aggiunto Samuele Pinta ndr.) l’idea di iniziare ad approfondire il tema dei pagamenti via smartphone e dei possibili modelli è nata a fine 2012 quando entrambi avevamo degli ottimi lavori e anche ben retribuiti. A nessuno dei due però bastava, sentivamo di poter fare di più e anche di dover imparare di più. Per questo ci siamo messi a studiare il mondo dei pagamenti e quando, approfondimento dopo approfondimento, ci è sembrato chiaro che ci potesse essere lo spazio per un modello nuovo, abbiamo pensato che provare a creare un’impresa nostra sarebbe stato il modo migliore per imparare, cercando al contempo di generare un reale cambiamento per le persone. Insomma, meglio di un master. A distanza di cinque anni possiamo dire di aver fatto bene ad investire e a rischiare, abbiamo imparato tanto, abbiamo anche iniziato a generare il cambiamento a cui ambivamo, ma la strada è ancora lunga.

Oggi la tecnologia ha creato un’onda di innovazione che è molto più alta delle barriere all’ingresso, dando così la possibilità a una serie di attori (fra cui noi) di tuffarsi nel mercato.

“Do It Smart” è una frase che ogni azienda italiana dovrebbe incidere a caratteri cubitali sulla porta d’ingresso. Un motto che voi avete scritto ovunque e che applicate a tutto quello che fate: dalla user experience della vostra app, al modo in cui ingaggiate i locali. Cosa vuol dire per voi “farlo smart”? E come si potrebbe diffondere un approccio al lavoro più smart in un Paese, come l’Italia, dove il tasso di produttività è tra i più bassi in Europa e dove si spreca un sacco di tempo?

Significa smettere di lavorare sulla “Best practice” e creare la “Next practice”, o meglio, smettere di fare come si è sempre fatto e chiedersi il perché di ogni cosa che dobbiamo fare, per farla con testa e nel migliore dei modi, non nel più comune. Questo approccio permette di liberarsi da preconcetti e sovrastrutture e semplificare veramente. Fare innovazione significa esattamente questo, arrivare allo stesso punto, o – come nel nostro caso – capire che si può arrivare a punti nuovi, cambiando i percorsi, tracciando nuove vie e, nel farlo, non dimenticare mai che anche l’innovazione più complessa deve arrivare al consumatore finale nel modo più semplice, in quel modo che ognuno di noi vorrebbe poter avere a disposizione per utilizzare o fare qualsiasi cosa. Per farlo in Italia è necessario creare una cultura aziendale dando l’esempio come leader, impostando questo approccio per ogni cosa: dalla creazione delle componenti fondamentali del prodotto, alla semplice gestione delle riunioni, del calendario, della chat aziendale. Chi ricopre posizioni chiave deve prima fare le cose in un certo modo, poi pretendere che lo stesso metodo e approccio siano applicati da tutta la squadra.

 

Nel 2017 siete state una delle Start Up che ha raccolto più investimenti privati, se non sbaglio 18 milioni di euro. Una cifra straordinaria se si pensa al mercato degli investimenti in Italia, ma molto più moderata se pensiamo ai mercati californiano, newyorkese o londinese. Quanto è difficile trovare i fondi in Italia? E che consigli ti senti di dare, in termini di fund raising, a chi sta iniziando a cercare i primi fondi per lanciare la propria Start UP?

È vero. Nel 2017 abbiamo raccolto poco più di 18,3 milioni che aggiunti ai capitali raccolti precedentemente ci hanno portato a una raccolta complessiva di 26,8 milioni di euro. Tanto per l’Italia, ma certamente non paragonabile a quanto avviene negli altri mercati. Se fossimo nati in un Paese di matrice anglosassone probabilmente avremmo subito raccolto di più, ma siamo ugualmente contenti. Abbiamo gestito così una crescita graduale che ci ha permesso di imparare molto per poterci presentare al mercato dei capitali internazionali più solidi e più grandi. Oggi le cose stanno cambiando, vediamo che in generale c’è più interesse anche dall’estero per le realtà italiane. In ogni caso, la raccolta di capitali nel nostro Paese è possibile. Bisogna soltanto sapere dove andare a reperirli. A chi si appresta a cercare fondi per supportare la prima fase di crescita, consiglio di guardare agli investitori privati più che ai fondi. Siamo il secondo Paese al mondo per risparmio privato e c’è tanta voglia da parte di chi ha risorse di partecipare a progetti validi che possano contribuire a costituire il tessuto imprenditoriale del Paese di domani. Serve solo essere convinti di quello che si sta facendo, essere convincenti verso i potenziali investitori in forza delle proprie competenze e della propria visione e non limitare l’ambizione di crescita. Pensare in grande aiuta a catturare l’attenzione e a dare motivi validi per investire. C’è tanto talento in Italia e sono convinto che nei prossimi anni vedremo nascere e crescere tante nuove realtà in grado di scalare a livello internazionale.

"Do It Smart" significa smettere di lavorare sulla “Best practice” e creare la “Next practice”, o meglio, smettere di fare come si è sempre fatto e chiedersi il perché di ogni cosa che dobbiamo fare, per farla con testa e nel migliore dei modi, non nel più comune.

 

Qualche domanda veloce

Oggi stai “distruggendo”, nell’accezione anglosassone di “disrupt”, il settore finanziario dei pagamenti, quale altro settore ti piacerebbe “distruggere”?

Quello degli investimenti Venture.

Una sera ti sei ritrovato a una festa con Tim Cook, se potessi organizzare una cena con un imprenditore o manager del nostro tempo, con chi ti piacerebbe cenare?

Elon Musk.

Se trovassi una macchina del tempo (funzionante…) e potessi fare soltanto un viaggio, dove andresti a vivere? Nel passato o nel futuro?

Nel futuro.

Se potessi scrivere una sola parola su un grosso billboard in Piazza Duomo a Milano, quale parola sceglieresti?

Gentilezza.

Qual è la caratteristica chiave per rivoluzionare un settore e cambiare le abitudini di centinaia di migliaia di persone?

La semplicità.

Cosa ti spinge di più a lavorare? Fare soldi (making money), o fare qualcosa che dia un senso alla tua vita e abbia un impatto sul mondo (making meaning)?

Making Meaning… con un occhio al money per potermi poi buttare sul settore degli investimenti. ☺