La sottrazione del cambiamento

Scritto il 17 Marzo 2015

All’interno del mio libro «Fai Fiorire il Cielo» parlo di come quello che stiamo vivendo sia un momento di cambiamento straordinario e quindi una grande occasione per immaginarsi un’idea di futuro più nostra. Nel particolare identifico sei motivi che rendono i nostri tempi così unici ed eccellenti e che, soprattutto, rendono il cambiamento non più un concetto accessorio, facoltativo, ma un bisogno primario.
Uno di questi è l’impatto ambientale e la crescita della popolazione mondiale. Secondo molte stime, nel giro di cinquant’anni gli esseri umani viventi sulla terra raggiungeranno i dieci miliardi e una parte sempre maggiore di noi sarà energivora, il che può portare solo a tre possibili scenari (che prevedono comunque tutti e tre dei
cambiamenti radicali): tornare indietro e cambiare il nostro stile di vita, trovare nuove risorse energetiche sostenibili oppure guardare verso nuovi pianeti.
Sebbene questa possibilità possa apparire apocalittica e forse eccessiva non lo è. Basta pensare che alcuni dei principali imprenditori degli ultimi decenni si sono lanciati in iniziative che mirano a portare l’uomo nello spazio. Dal patron della Virgin Richard Branson con Virgin Galactic, al fondatore di PayPal e Tesla Motors Elon Musk con SpaceX, fino al fondatore di Amazon Jeff Bezos con Blue Origin. Così come la Green Economy e il mercato delle energie rinnovabili è in continua espansione.
Delle tre strade proposte però personalmente quella che considero più valida è la prima: tornare indietro e cambiare il nostro stile di vita. Principalmente perché è l’unica alla portata di tutti (non tutti possono permettersi di lanciare una compagnia aerospaziale e non tutti possono permettersi di investire milioni in energie rinnovabili) e, soprattutto perché si fonda su una logica di sottrazione e non di addizione.
Pensare nuove energie rinnovabili così come inventare nuove macchine per andare nello spazio è importante, ma rientra sempre in una logica speculativo-capitalistica di addizione. Di aggiungere nuovi bisogni e nuovi prodotti mentre invece la soluzione potrebbe essere molto più semplice e immediata. Per molti anni siamo cresciuti con l’imperativo della crescita infinita senza renderci conto che questo modello è incompatibile con il nostro pianeta che è di per sé finito.
Pensiamo alle parole del medico e ricercatore americano Jonas Salk: «Se tutti gli insetti scomparissero dalla Terra, entro cinquant’anni tutta la vita sulla Terra finirebbe. Se tutti gli esseri umani scomparissero dalla Terra, entro cinquant’anni tutte le forme di vita fiorirebbero». Come cantano i Depeche Mode nel brano «Everything Counts», tutto conta in grandi quantità, e spesso ci dimentichiamo che le nostre abitudini hanno un impatto esponenziale sul mondo proprio perché siamo sette miliardi di abitanti e il mondo ha delle risorse limitate: o lo abbandoniamo verso mete extraterrestri, oppure, al posto di continuare a inventare nuove forme di eco-consumismo, dovremmo provare a rivedere il nostro stile di vita. Il vero cambiamento non passa dal più ma dal meno. Il modo per inquinare meno non è comprare una nuova macchina più eco-compatibile, ma usare meno la macchina. È un paradigma completamente diverso che, come per la scultura di Plotino, procede per sottrazione, non per addizione.
Il nostro stile di vita non è più sostenibile. Questo è un dato di fatto cui non possiamo più prescindere. Uno studio fatto dal WWF ha calcolato che lo spazio bioproduttivo consumato pro capite dalla popolazione mondiale è in media di 2,2 ettari il che è ben sopra il limite di sostenibilità di 1,8 ettari. Il che è ancora più allarmante se si pensa che questa media del 2,2 è contro-bilanciata dalla maggior parte dei paesi dell’Africa che consumano solo 0,2 ettari pro capite quando un cittadino americano ne consuma 9,6, un canadese 7,2 e un europeo 4,5. Il che è ancora più allarmante se si osserva la direzione in cui sta andando il mondo che, purtroppo, non è quella dall’America all’Africa (e quindi quella che prevederebbe che un cittadino americano inizi a consumare quanto uno africano) ma viceversa quello dall’Africa all’America. E ora che le economie emergenti, che per decenni sono cresciute guardando al modello del progresso occidentale, possono cominciare a permettersi questo “progresso” come possiamo noi, che lo abbiamo creato e vissuto a spese loro e di chi verrà dopo di noi, dirgli che ora che è il loro momento non possono più goderselo?