La copertina del Time di questa settimana è dedicata al burro e, più in generale, ai grassi. Uno still life caravaggesco di una scaglia di burro occupa l’intera copertina lasciando giusto lo spazio per il titolo: “Mangia Burro. La scienza ha etichettato il grasso come nemico. Perché si sbagliavano”. La cosa di per sé non mi stupisce molto. La storia è una continua negazione di rivelazioni del passato che oggi appaiono superate. Questa volta però, il mio pensiero non va al presente ne, tantomeno, al passato, bensì al futuro.
Partiamo dal principio. Adoro mangiare i crostacei. Ne mangerei a tonnellate. Tutti i tipi di crostacei. Gamberi, aragoste, granchi. Qualche anno fa mentre scendevo da Chicago a New Orleans con mia moglie, ci siamo fermati lungo la strada, presso un piccolo ristorante* che faceva sea-food (oltre che coccodrillo in tutte le salse). Non ho mai mangiato così tanti gamberi e granchi. Eccezionali. Anche a Boston ho mangiato delle aragoste fantastiche. Anche a Cuba (anche se non è così facile trovarle). Una volta a Byblos in Libano ho mangiato dei granchi grossi almeno una spanna. Per non parlare della Normandia. O della Croazia. Dovunque ci siano dei buoni crostacei, li mangio.
E ogni volta che li mangio ma, soprattutto, ogni volta che li pago, penso a quando nell’America del 1700 i crostacei erano considerati un alimento per poveri. Spesso dato agli schiavi (tanto era degradante mangiarli). Penso allo storico britannico William Wood, quando all’inizio del diciassettesimo secolo diceva che la loro [dei crostacei] abbondanza li rendeva un cibo poco ricercato, poco apprezzato e poco mangiato (se non dagli indiani che ne aveva in gran quantità e li mangiavano quando proprio non avevano null’altro di cui sfamarsi). Il che ha dell’incredibile, tenendo conto di quanto costa oggi un’aragosta.
Incredibile vero. Ma non così tanto. Non è una questione di gusto. Escludo che il sapore dell’aragosta sia cambiato nei secoli. È una banalissima questione di domanda e offerta e quindi di mercato. Fino al 1800 l’offerta di crostacei era molto alta (il mare ne era pieno) mentre la domanda molto bassa. Oggi è esattamente il contrario e quindi anche il gusto si è adeguato, trasformando quello che un tempo era un cibo per gli schiavi in una prelibatezza per i padroni.
Ma questo riguarda il passato (l’aragosta come prodotto di massa) e il presente (l’aragosta come prodotto d’elite). Proviamo a pensare a quello che oggi c’è in abbondanza e che viene da molti (soprattutto occidentali) ritenuto immangiabile (se non disgustoso). Gli insetti. Chi li mangerebbe? Forse nessuno, eppure un domani potrebbero essere considerati alla stregua delle aragoste. Lo scorso inverno ero in Cambogia e per le strade era pieno di bancarelle che vendevano cibo di ogni genere tra cui insetti e rettili vari (lucertole, serpenti…), ho evitato i serpenti e le lucertole, ma non ho resistito alla tentazione dei qualche cicala fritta. Non male. E non era neanche condita. Sicuramente immersa in un cocktail in salsa rosa sarebbe stata più gradevole ma già così meritava.
La morale è dunque: È il gusto che influenza il mercato o il mercato che influenza il gusto? Quanto di quello che troviamo immangiabile oggi sarà considerato un domani una prelibatezza? E, in ultimo, possibile che non ci sia un modo per attualizzare i gusti del domani così da poter godere oggi di quello che oggi c’è in abbondanza?
* Per chi avesse la fortuna di passare nei paraggi questo l’indirizzo: B&C Seafood Market & Cajun Restaurant, 2155 Louisiana 18, Vacherie, LA 70090.