È sempre stimolante guardare indietro alle mode passate. Capirne i flussi e commentarne i costumi. Vedere come ritornano stili e tendenze, perdersi nei colori, nei tessuti e nelle ideologie. Cosa ha ispirato la nascita del fenomeno Rockabilly? Perché fino alla fine degli anni ’80 la moda era un’esplosione di colori ed eccesso e poi con gli anni ’90 tutto è imploso in un esistenzialismo introspettivo fatto di pantaloni strappati e iperboliche crisi esistenziali? Quali sono le conseguenze delle scelte di singoli individui sulla massa? Queste domande mi hanno sempre affascinato, molto probabilmente perché sono delle domande in-finite, come un film di David Lynch. Non esiste una sola risposta, così come non esiste una sola fine. Ma quello che trovo ancora più interessante è cercare di prevedere ciò che resterà del tempo che stiamo vivendo. Quale sarà l’immaginario che, fra i molti che attraversano un’epoca, avrà la meglio su tutti gli altri. Perché alla fine è sempre così, si generalizza su tutto, soprattutto sul passato. Così gli anni ’50 sono stati quelli dei Rockabilly, i ’60 quelli degli Hippies, i ’70 quelli della Discomusic, gli ’80 quelli degli Yuppie e i ’90 quelli del Grunge prima e dei Nerd dopo. E poi arriva la prima decade d’inizio secolo. Che, già di per sé, è difficile da etichettare. “Gli anni 00” è troppo apocalittico. “L’inizio secolo” troppo pesante. Oppure ci etichetteranno come i “Millenium”, con un richiamo alle saghe intergalattiche degli anni ’70. Già dall’anno prossimo ci andrà meglio perché entreremo ufficialmente negli “anni ‘10” che ancora suona strano ma se non altro regge, per poi passare finalmente agli “anni ‘20” dove di diritto potremo avere di nuovo un’etichetta degna. Resta che di questa decade faccio ancora fatica a mettere a fuoco l’immaginario più forte di tutti. Quello che ci segnerà e ci farà ricordare per il resto della storia. Probabilmente perché con questa decade c’ho avuto troppo a che fare e quindi sono troppo coinvolto per analizzarla razionalmente. O forse perché ormai le etichette si sono infrante nel caos di stili e influenze post-internet, o forse perché, e questa è la cosa che più temo, in questa decade si è inventato ben poco di nuovo, limitandoci a riciclare vecchie glorie. Forse la moda vintage, tanto diffusa negli anni ’90, si è radicata negli animi molto di più di quanto avessi pensato, travalicando i labili confini della moda per conquistare sempre più terreno nel marketing, nella musica, nell’arte e in tutte le espressione dell’essere umano. Come è possibile che negli ultimi dieci anni abbiano rispolverato tutto per riproporlo dopato di effetti speciali e inutili fardelli luccicosi. Sentivamo veramente la necessità di un nuovo episodio della trilogia di “Indiana Jones”? O del seguito di “Tron”, o di “Ritorno al Futuro”? Perché così tante cover di canzoni già belle di per sé, o così tante mode passate fuse insieme nella speranza di creare una moda nuova? E soprattutto, perché in questa slavina di revival non siamo riusciti a far tornare i valori di una volta, i politici di una volta, la qualità di una volta. Forse queste sono qualità troppo impegnative, dimenticavo che alcune delle caratteristiche prime di questa decade sono l’assoluta superficialità, l’immediatezza e l’esasperazione del tutto-e-subito. Si rischia troppo poco, certo la eco infinita della crisi non aiuta, ma senza rischio non si inventa nulla di nuovo e tutto gira su se stesso. Penso che “i problemi non possano essere risolti con le stesse dinamiche che li hanno generati” (Einstein), c’è bisogno di “scuotere il sistema” (Billy Idol) per “soffiare nel vento” (Bob Dylan) di una generazione furba che “critica tutti per non criticare nessuno” (After Hours). Ecco questo è un buon modo di scrivere, molto contemporaneo, una vertigine di citazioni, una dietro l’atra così da dire quello che si pensa senza però prendersene la responsabilità. Alla fine sto solo citando frasi di altri, di mio c’è solo la ri-contestualizzazione, l’abbinamento. Sono un words designer.