Perché non voglio esserlo.
Viviamo nell’era dello stile di vita slash. Tanto che fare un solo lavoro sembra quasi anacronistico. Una perdita di tempo. Eppure nessuno ci obbliga ad essere multitasking. È una nostra scelta. E io ho scelto di non esserlo. Già negli anni sessanta lo scrittore e religioso Thomas Merton sosteneva che «impegnarsi in troppi progetti e volerli realizzare tutti vuol dire soccombere alle violenze dei nostri tempi». E non aveva tutti i torti. La molteplicità è molto affascinante e rappresenta bene le sfaccettature della complessità contemporanea, però rischia di far perdere la concentrazione sulle cose e sui progetti realmente interessanti, con un enorme dispendio di energie che non porta a nessun risultato concreto. Soprattutto quando si cerca di essere o fare più cose contemporaneamente.
Perché essere multitasking non vuol dire essere più produttivi, anzi.
Siamo circondati da tecnologia che ci promette di mandare la nostra produttività alle stelle. App, programmi di project management, siti internet. Oggi possiamo spedire mail mentre corriamo e ascoltiamo musica. Eppure la realtà sembra molto diversa. In un articolo pubblicato il mese scorso sul The Wall Street Journal, Alain Blinder sottolinea come su un arco di 143 anni l’aumento medio annuo della produttività negli USA è stato del 2,3% annuo, il che ci ha consentito di moltiplicare 25 volte il nostro tenore di vita. Ma dall’inizio di questo decennio, la produttività è crollata dal +2,6% al +0,7%. Il che sembra un paradosso. Però, a pensarci, da quando ho smesso di essere sempre multitasking sono anche molto più produttivo.
Perché più si è multitasking e meno si gode.
Fare troppe cose contemporaneamente non permette di goderne nessuna. Parafrasando Montaigne, quando leggo leggo, quando mangio mangio. Se mangio e leggo insieme finisco per non rendermi conto di quello che sto mangiando oppure di non capire a fondo quello che sto leggendo. Non è che non lo faccio. Fisicamente sto leggendo e sto mangiando. Arrivo tanto alla fine del libro quanto alla fine del piatto. Ma quello che mi rimane è completamente diverso. È un’esperienza completamente diversa. Non riesco ad assaporare il gusto di quello che sto mangiando così come non riesco ad apprezzare la bellezza o la profondità di quello che sto leggendo. E questo è uno spreco.
Perché non sono una macchina.
Secondo uno studio della Oxford University il 47% dei lavori attuali (dal dentista, all’economista, così come dall’attore all’agente immobiliare) potrebbe essere automatizzato nel giro delle prossime due decadi, e questo ha creato un diffuso senso di ansia sul futuro di centinaia di migliaia di lavoratori. Tuttavia quello che mi spaventa di più non è che un giorno dei robot possano diventare degli umani e quindi fare un lavoro che oggi facciamo noi ma, al contrario, che gli umani si trasformino in robot e quindi perdano la loro capacità di immaginare nuovi lavori. Fare tante cose contemporaneamente, così come essere multitasking, è qualcosa che ogni macchina può fare. Usare l’immaginazione, la creatività, elaborare pensieri profondi e articolati concentrandosi su un solo concetto, sono invece caratteristiche che solo noi umani possediamo.
Perché essere multitasking riduce la qualità del risultato di ciò che si fa.
Non è solo una questione di produttività o quantità ma anche (e soprattutto) di qualità. Come ci ricordava Buster Keaton, nel suo capolavoroLa palla n. 13: «Non provare a fare due cose contemporaneamente e aspettarti di fare bene entrambe». E aveva ragione. Quando faccio più cose contemporaneamente mi viene solo un gran mal di testa e le faccio tutte male. E, tenendoci molto a quello che faccio, finisce che lo devo rifare impiegandoci, di fatto, non il doppio ma almeno il 50% del tempo in più.
Perché preferisco fare tante cose in sequenza piuttosto che contemporaneamente.
Il tema non è quante attività si stanno facendo, più sono più si avrà la possibilità di adattarsi a un contesto in continuo cambiamento. Quello che importa è avere una sequenzialità che permetta di portare a termine un progetto prima di aprirne un altro. Un po’ come l’opera di Marcel Duchamp 11 Rue Larrey, Paris esposta alla Biennale di Venezia del 1978, dove c’era una sola porta per due stanze affiancate così che per aprirne una bisognava per forza chiudere l’altra e viceversa.