Qualche mese fa sono stato invitato, insieme ad altri operatori del mondo dell’arte contemporanea, ad un incontro per valutare possibili strategie per il rilancio di Art Verona. Sono nati spunti interessanti? Si alcuni. Ma il pensiero più grande è andato all’Italia. Il mercato dell’arte contemporanea e, più in particolare, quello delle fiere è l’ennesima espressione di come l’Italia sia incapace di fare sistema e di come sia, di fatto, un miscuglio distinto e disordinato di piccole realtà che tra loro non riescono a parlarsi. Questo vale per le piccole imprese, per la politica e anche per l’arte.
Qual è la fiera d’arte contemporanea di riferimento in Svizzera? Una, Basel ed è la più importante del mondo. Qual è la città di riferimento per l’arte contemporanea in Inghilterra? Una, Londra. E in Italia? Tante piccole realtà che si fanno concorrenza. Abbiamo Venezia con la Biennale. Milano con il MiArt. Roma con la sua fiera. Bologna con Artefiera. Torino con Artissima. Bergamo con la BAF. Verona con Art Verona. E così via. E intanto anche in questo settore perdiamo di competitività. Non riusciamo a fare sistema. La fiscalità sta uccidendo il mercato. Gli artisti vanno all’estero. I compratori vanno all’estero. E le gallerie chiudono.
All’interno del suo saggio «La nuova geografia del lavoro», l’economista Enrico Moretti, spiega come il grado di istruzione di un singolo lavoratore abbia ricadute sull’intera comunità in cui vive e che quindi il successo propizia ulteriore successo e le città in grado di attirare lavoratori qualificati e imprese innovative tendono ad attirarne sempre di più.
Il successo di un’azienda o di una città tuttavia non dipende soltanto dalla qualità dei suoi lavoratori ma anche dall’ecosistema produttivo (inteso come interrelazioni tra imprenditori, avere a che fare con persone creative e stimolanti etc etc) in cui è inserita. E quindi l’ecosistema determina la «grande divergenza » tra le città. Questo spiega perché grandi aziende sono disposte a spendere molto di più in costo del lavoro e affitti pur di stare in città con un ecosistema innovativo e stimolante (come San Francisco).
Nel mondo dell’innovazione infatti, produttività e creatività sono molto più importanti del mero costo del lavoro. Essere nel giusto ecosistema porta a tre importanti vantaggi competitivi (che gli economisti riuniscono sotto il nome di «forze di agglomerazione»): un mercato del lavoro denso, la presenza di fornitori di servizi specializzati e, soprattutto, gli spillover del sapere (effetti diffusivi del sapere).
In Italia questo ecosistema è sempre più raro. Le aziende non riescono a fare sistema, a condividere sapere e conoscenze. Se a questo si abbina la scarsa propensione delle istituzioni a creare reti e ad agevolare la formazione di ecosistemi produttivi, il risultato è un contesto (come quello attuale) che, al posto di attirare talenti e far crescere il valore delle imprese, tende a chiudersi in se stesso.