La rivincita di Blaster

Scritto il 9 Marzo 2015

Nel film Mad Max – Oltre la sfera del tuono diretto da George Miller e George Ogilvie, Mad Max, interpretato da Mel Gibson, giunge a Bartertown, corrotta città in mezzo al deserto, e ottiene un accordo con la sua regina, Aunty Entity (interpretata da Tina Turner); se egli ucciderà Blaster, un guerriero mascherato alle dipendenze di Master, che dirige la centrale elettrica della città, riceverà una ricompensa. Master è un anziano nano ed è l’unico in grado di gestire la centrale, che funziona grazie al metano prodotto dai maiali, e finché c’è Blaster a proteggerlo può sfruttare la situazione per spadroneggiare.
La genialità del personaggio di Master è che in realtà è un tutt’uno con Blaster. Se Master è la mente geniale che però non riesce a valorizzare attraverso il proprio corpo, Blaster è un corpo possente che però non riesce a valorizzare attraverso la sua mente. Insieme quindi diventano una perfetta macchina da guerra che solo Max riuscirà a sconfiggere.
Penso a questo personaggio ogni volta (e mi capita spesso) in cui ho a che fare con un prodotto Apple. O meglio, ogni volta che leggo sul prodotto Apple con cui ho a che fare:

Designed by Apple in California. Assembled in China.

Questa frase è una delle tante espressioni del mondo ormai globalizzato in cui viviamo. Un mondo che ha fatto della teoria del vantaggio comparato di David Ricardo un imperativo per crescere. Perché produrre nel proprio Stato qualcosa che può essere fatto e importato da chi lo sa fare meglio (e a minor costo) quando ci si può concentrare su ciò che si può far meglio di tutti e comprare in outsourcing tutto il resto? Il plus valore della California sta nel pensare l’oggetto non nel assemblarlo. Non a caso la Apple guadagna 321 dollari (pari al 65% del totale) per ogni iPhone, più di qualsiasi fornitore di componenti.
Ma questa idea di globalizzazione. Di scissione così netta tra dove un oggetto viene pensato e dove viene prodotto (o anche solo assemblato) sta cambiando e con lui il concetto stesso di vantaggio comparato.
Nell’Ottobre del 2013 l’Economist scriveva che la globalizzazione (per come è stata intesa negli ultimi cinquant’anni) è in stand-by. Oggi i governi scelgono con chi commerciare, quali capitali accettare e quali no. Stiamo andando verso una gated globalization che si oppone al modello liberista che ha caratterizzato la seconda metà del secolo passato.
Da Deng Xiaoping in avanti la Cina (il Blaster della Apple) è sempre più occidentale, capitalista e consumistica. Nel 1995 Jiang Zemin (riprendendo uno slogan dello stesso Deng) invitava il popolo cinese a uscire e diventare attori globali.
Non sorprende che quelle che per molto tempo sono state chiamate economie emergenti siano ormai molto più che emerse. Oggi paesi come Cina, India, Messico, Brasile, Indonesia (per non parlare dell’Africa) producono (in termini di PIL globale) molto più delle vecchie economie facendo aumentare così anche il potere d’acquisto e (forse, un domani) il tenore di vita.
È la rivincita di Blaster. Oggi stiamo assistendo a un’inversione del concetto di globalizzazione che si sta evolvendo verso un paradigma non più unidirezionale (i Paesi sviluppati e le grandi multinazionali dettano le leggi del mercato mondiale) ma pluridirezionale (pensiamo agli esempi di reverse innovation o ai casi di glocalizzazione o ancora ai molti prodotti nati per economie emergenti e poi importati in economie più sviluppate).
Così come lo stesso concetto di outsourcing sta conoscendo una forte riconfigurazione. Alcune aziende americane stanno riportando interi stabilimenti di produzione negli USA. E questo potrebbe creare una nuova frontiera per l’evoluzione dell’economia dei singoli Paesi.
Il vantaggio comparato è un modello molto efficiente ma che porta inevitabilmente a una ultra-specializzazione della propria offerta. Se ogni Paese continua a fare solo quello che sa fare meglio senza innovarsi ma solo migliorando la propria offerta diventerà sempre più statico e non avrà possibilità di adeguarsi ai cambiamenti del mercato. Non avrà modo di re-inventarsi e riproporsi. E oggi sapersi re-inventare è un tratto essenziale per la sopravvivenza economica di un Paese.
Pensiamo all’Italia. Oggi il nostro Paese ha un’urgenza di innovarsi sia in termini di processi sia in termini di offerta. Il Made in Italy ci ha reso grandi nel mondo ma non potrà durare in eterno. Un tempo il Made in Italy era diffuso, trasversale. Andava dalla moda ai computer. Dalle auto alla farmacia. Oggi invece si sta riducendo alla moda, al cibo e al turismo. Non sorprende che dal 2008 siano fallite 82.000 imprese (di cui 14.000 nel 2014 – dato che con le procedure concorsuali non fallimentari e le liquidazione volontarie sale a 104.000) ed è stato perso un milione di posti di lavoro. Non sorprende (ma allarma) che l’area geografica più colpita nel 2014 sia il Nord Ovest. Uno dei luoghi nevralgici dell’imprenditoria italiana.
A meno che non si voglia trasformare l’Italia nel nuovo Blaster dell’Europa, se non del mondo, alimentando è necessario re-inventare il nostro tessuto imprenditoriale e rilanciare il nostro vantaggio comparato. E questo può essere fatto solo attraverso l’educazione e l’investimento. Educare il nostro (sempre maggiore) esercito industriale di riserva, i nostri disoccupati, ad apprendere nuovi lavori. Ed innovare (e non solo migliorare) quello in cui possiamo differenziarci e creare valore aggiunto.