America e Nuvole

Scritto il 12 Febbraio 2015

Internet ci ha abituato a ritmi e tempi talmente veloci che è sempre più raro il tempo che ci prendiamo per andare a fondo delle cose o, quanto meno, per leggere un testo che superi le 400 battute, se non addirittura i 140 caratteri. E, da persona che ha appena scritto un libro di 320 pagine, ne sento il peso.
Però penso che il diritto all’informazione passi anche dalla ferma volontà di prendersi il giusto tempo per analizzare le cose e, soprattutto, capirle. Così dopo la quinta volta che Google cercava di comunicarmi il loro cambio di regolamentazione della privacy, mi sono preso il tempo per approfondire il tema. Di base qualsiasi materiale caricato su piattaforma Google resta di chi lo ha caricato ma, di fatto, si cedono a Google i diritti riguardanti lo scopo limitato di utilizzare, promuovere e migliorare i loro servizi e di svilupparne di nuovi. Il che vuol dire tutto come non vuol dire nulla. Google potrebbe cedere i nostri dati a una qualsiasi delle sue aziende partner come tenerseli per sé o utilizzarli per costruire una comunicazione marketing o un nuovo servizio studiato apposta per noi. Questo non lo si potrà mai sapere.
Oggi la nostra riservatezza è sempre meno riservata e questo penso sia un dato di fatto al quale, salvo decisioni digitalmente eremitiche, non potremo mai sottrarci. Viviamo nell’era del comunismo coatto della privacy. Tutte le informazioni sono di tutti. Ovviamente, come ogni comunismo, c’è sempre la sua degenerazione che in questo caso ha i tratti ambigui di un sistema in cui tutti condividono tutto ma le realtà in possesso di tutti questi dati sono sempre meno e, di conseguenza, il comunismo dell’informazione si sta velocemente trasformando in un monopolio delle informazioni dove in molti parlano e in pochi sanno.
Come sottolinea Cullen Hoback, autore del film Terms and Conditions May Apply, firmiamo contratti che non leggiamo, mettiamo dati e documenti in server di cui non sappiamo la provenienza, condividiamo pensieri e riflessioni con persone che non conosciamo e diamo informazioni personali a siti, app e programmi senza domandarci che fine faranno. Nel giugno 2013, mentre il mondo gridava allo scandalo perché tutti si sentivano osservati dal Grande Prism, in Italia il numero di utenti Facebook aumentavano del 47% e gli utilizzatori di smartphone del 28% mentre, a livello mondiale, Twitter cresceva del 44%. Il che può apparire un controsenso. Da una parte ci allarmiamo perché ci sentiamo sotto controllo, dall’altra contribuiamo alla crescita degli strumenti per controllarci. Un po’ come quando ci si lamentava della tv spazzatura dimenticandoci che eravamo noi ad avere in mano il telecomando.
Onestamente non so quanto durerà la logica del “concedo tutto purché il servizio rimanga gratuito”, penso, o forse spero, che prima o poi gli utenti della rete si rendano conto di quanto valga la propria privacy (basta pensare all’ultima operazione promossa da AT&T sulla privacy) e siano disposti a pagare qualcosa per i servizi che utilizzano in cambio di una riservatezza maggiore nel trattamento dei propri dati. Oppure si continuerà così, il che non è necessariamente negativo. Questa situazione di euforia del pubblico potrebbe anche far si che si sviluppi una cultura della trasparenza, coatta o no, in cui nessuno ha più nulla da nascondere. Una sorta di outing collettivo dove vizi, gusti e preferenze vengono tutti messi in piazza. Una cultura della condivisione totale dove tutti parlano di sé a tutti. Dove tutto diventa pubblico. E dove un domani, per parafrasare Bansky che a sua volta parafrasava Andy Warhol, chiunque sognerà i suoi 15 minuti di anonimato.