Ogni anno a dicembre compro «Il mondo in cifre» un piccolo riassunto dei principali dati socio-economici del mondo edito da The Economist e tradotto da Internazionale. Il libro è ricco di spunti e di numeri che svelano tendenze e realtà da ogni Paese. Sull’Italia ci sono due numeri degni di nota. Uno fa sorridere, l’altro meno. Il primo riguarda il consumo di Marijuana, altrimenti detta Ganja o, più comunemente, Cannabis. Stando a questo dato, l’Italia è il paese dove si consuma più Marijuana, al mondo. E questo, in tutta, onestà mi ha stupito e, con altrettanta onestà, mi ha fatto sorridere.
Ho sorriso meno quando a pagina 62, all’interno del capitolo “Imprese: Creatività e Ricerche” ho letto la classifica relativa al tasso d’imprenditorialità, inteso come la percentuale di persone tra i 18 e i 64 anni imprenditori emergenti o proprietari-manager di una nuova impresa. In questa classifica l’Italia è al top per i paesi con minor tasso d’imprenditorialità. Non uno dei paesi con il minor tasso d’imprenditorialità ma IL minore. Quello, per intenderci, dove ci sono meno imprenditori emergenti. Se a questo dato si aggiunge quello relativo alla competitività globale e all’ambiente imprenditoriale, dove l’Italia non compare ne nell’una ne nell’altra classifica, il sorriso scompare definitivamente.
Avevo già parlato della situazione imprenditoriale in Italia qui, però questi dati mi portano a fare altre due riflessioni. La prima riguarda il tessuto della nostra economia che da sempre si basa sulle PMI, le piccole medie imprese, che oggi stanno scomparando a causa soprattutto d’investimenti sempre minori in ricerca e sviluppo e di una conseguente perdita della produttività delle nostre aziende. Un tempo, nel periodo del trentennio glorioso (dove l’economia italiana viaggiava ad un aumento del PIL di quasi il 50% contro il 2% attuale), molti artigiani si sono inventati imprenditori creando alcune delle principali aziende italiane. A quei tempi però il passaggio dalla bottega all’impresa era molto più immediato sia in termini burocratici sia in termini di conoscenze tecniche. Oggi invece, non si può prescindere dall’educazione, dalla formazione e dalla ricerca. E per farlo sono richiesti investimenti.
La seconda riflessione riguarda più il futuro dell’economia di questo Paese. All’interno del suo saggio «Banchieri», il giornalista Federico Rampini, ci ricorda come in Perché le nazioni falliscono, Daron Acemoglu e James Robinson, distinguono i Paesi che hanno successo da quelli che arretrano. I primi sono governati da istituzioni inclusive, società aperte, con mobilità dal basso e un rinnovamento continuo delle élite. I Paesi che arretrano invece sono quelli con società estrattive dove una minoranza estrae ricchezza dal resto, per il proprio vantaggio personale. In questo contesto è ovviamente molto più difficile emergere perché chi ha avuto successo grazie a un sistema inclusivo tende a togliere la scala a quelli che vengono dopo, creando così una situazione stagnante dove nessun potenziale entrante, per dirla alla Porter, può minacciare il loro successo, ma dove, d’altro canto, nessuna nuova imprese ha la possibilità di crescere. Il che spiega un altro dato presente all’interno de «Il mondo in cifre», l’assenza dell’Italia dalla classifica degli investimenti stranieri diretti in entrata.