Non è facile vivere durante la crisi. Principalmente perché la crisi sembra essere diventato il nuovo male nero cui tutti fanno riferimento ma che nessuno realmente conosce. E allora ecco la scusa migliore per giustificare ogni nostra mancanza. Il paese è fermo. Colpa della crisi. Gli operai si licenziano in massa. Colpa della crisi. Non s’investe in cultura. Colpa della crisi. Ormai la crisi sembra essere diventato un palliativo cui tutti s’aggrappano. Ognuno la sfrutta per i propri interessi. I politici la usano per coprire i loro errori. Gli imprenditori per licenziare in massa. I consumatori per risparmiare. Gli investitori per spostare i soldi all’estero. I giovani per smettere di sperare in un mondo migliore. I genitori per non far più figli. I ministri per tagliare i fondi. Le aziende per non investire. I giornali per ridurre la redazione. Le università per non investire nella ricerca. Gli ospedali per privatizzare. Le multinazionali per non rinnovarsi. Vista così la crisi sembra qualcosa di voluto. Qualcosa che ci permetta di dar sfogo a tutta la pigrizia e l’egoismo che caratterizza l’essere umano. Eppure c’è e si sente. Ma qual è la novità? Da che ho memoria il mondo è sempre stato in crisi. Ormai è imprescindibile il pensarci in uno stato di equilibrio armonioso con il mondo e con gli altri. La nostra è l’era dell’inquietudine. Tutto cambia troppo in fretta anche solo per fermarsi a pensare a come sarebbe il mondo in uno stato di pace. Cos’ha di così differente questa crisi da tutte quelle che l’hanno preceduta? La crisi del cambiamento climatico non è forse più imminente e catastrofica? O quella della fame nei paesi del terzo mondo? O la mancanza d’acqua? O le innumerevoli crisi di governo che l’Italia è costretta a subire? O anche semplicemente le ondate costanti di malattie virali, dalla mucca pazza alla Sars passando per la Suina, l’Aviaria e il male del nostro secolo, l’Aids. Sono tutte crisi che caratterizzano il nostro tempo. Crisi talmente grandi e radicate nel nostro vivere quotidiano che quasi non ce ne rendiamo più conto. Sono diventate parte della nostra vita. Eppure questa crisi finanziaria sembra essere più pop, più vicina ad ognuno di noi. E allora mi viene un dubbio o meglio un pensiero. Nulla di nuovo. Semplicemente uno di quei pensieri cui non vorrei dar peso ma che alla fine torna sempre a mostrarsi per quello che è. Una verità. Spiacevole, frustrante e senza dubbio globale. Allora penso che forse questa crisi vale più di tutte le altre perché ci sono di mezzo i soldi. I nostri risparmi, i nostri capitali. Ed ecco che tutto si riduce al denaro. In Africa si muore di fame. Possiamo aspettare. Il mondo sta collassando. Possiamo aspettare. Il governo sta distruggendo il paese. Possiamo aspettare. Non c’è più acqua. Possiamo aspettare. Per i giovani non c’è più futuro. Possiamo aspettare. I valori non esistono più. Possiamo aspettare. Non esiste più la politica, non esiste più la famiglia, non esiste più la fede. Possiamo aspettare. Ma se sono le banche a collassare, se qualcuno tocca l’aulularia che abbiamo nascosto in giardino. Allora tutto deve cambiare. E deve cambiare in fretta. Cosa importa chi pagherà i conti della nostra fretta. L’importante è che i ricchi siano sempre più ricchi. E allora si taglia su tutto. Come dei macellai. Si taglia sui fondi destinati ai paesi in via di sviluppo. Si taglia sulla cultura. Si taglia sui giovani. Si taglia sul lavoro. Si taglia sulla ricerca. Si taglia sulle pensioni. Si taglia sul futuro. Tutto passa in secondo piano. Si sacrifica tutto nel nome dei soldi. Cosa ne sarà del mondo post-crisi? Da hegeliano convito non posso che vivere questo momento con la fiducia di chi sa che ogni momento negativo altro non è che un passaggio fondamentale verso la realizzazione di un mondo migliore. Se è vero che il futuro non è più quello di una volta mi auguro almeno che il passato resti quello di un tempo e che il presente abbia la forza di imparare dagli errori fatti. Dobbiamo toccare con mano le conseguenze dei nostri errori per non commetterne di altri. E allora mi chiedo se veramente riusciremo ad uscire di questo stato di crisi perenne che ci contraddistingue. Non mi stupisco che dopo l’Amore degli anni ’60, l’Anarchia dei ’70, l’Abbondanza degli ’80 e l’Apatia dei ’90 ecco che la nostra epoca si porta il gravoso fardello della A di Ansia che più di ogni altra emozione sembra scandire i ritmi frenetici delle nostre giornate. L’ansia per il futuro, l’ansia per le relazioni, l’ansia per il lavoro, l’ansia per il tempo che passa, per le occasioni che perdiamo, per le mode del momento. O forse semplicemente l’ansia per il vuoto che ci circonda. Un’ansia da horor-vocui che ci porta a riempire ogni momento della nostra vita anche solo per il bisogno ormai essenziale di non pensare. Quando invece mai come ora è necessario fermarsi a pensare. Fermarsi a riflettere sulla direzione in cui il mondo sta andando e sulle nostre responsabilità. Così penso ad una frase di Elvis Presley, o meglio al titolo di una sua canzone, forse tra le sue più famose. “A little less conversation a little more action, Please”. Per anni è stata una delle mie linee guida. Non amo molto chi si perde in chiacchere, non amo i politici italiani bravi solo a fare i propri interessi, non amo gli avvocati, i notai, i giornalisti, gli autori televisivi, i commercialisti e tutte quelle professioni che amplificano la distanza tra le persone e manipolano la realtà per guadagnarci sopra. Sono per l’azione e per i fatti. Eppure oggi leggo questa frase diversamente perché mi rendo conto che forse il problema è che abbiamo fatto troppo e abbiamo pensato troppo poco. Così mi viene da pensare che forse sarebbe il caso di metterci più testa e meno mani nelle cose che facciamo. Di avere un senso più critico e, senza false diplomazie, di essere più intolleranti o, detto più politically correct, intransigenti, senza perdersi nella frenesia dell’azione a tutti i costi. Forse il mondo sta andando a rotoli proprio perché la gente pensa troppo poco e agisce troppo in fretta. Penso a quanti soldi, a quanto tempo e spesso a quante vite si stanno sprecando nel claustrofobico tentativo di rimediare ad errori del passato e riportare le cose così com’erano un tempo e non posso fare a meno di domandarmi come potrebbe essere il mondo se solo si avesse avuto l’umiltà di fermarsi a riflettere sulle azioni che si stavano compiendo. Così al Rock pelvico di Elvis Presley preferisco il punk primordiale dei The Clash e della loro “Stop The World”.