Marina Abramović riesce sempre a sorprendermi, e questo penso sia il principio primo per poter definire qualcuno un artista. Dopo una vita di violenza, sangue, arte e profondo pathos, eccola al Moma con la sua performance più intima e minimalista. 75 giorni seduta a guardare negli occhi chiunque, fuori da ogni limitazione spazio-temporale. Un viaggio introspettivo nell’essenza stessa della persona dove senza gesti, parole o intermediari chiunque poteva fondersi con l’artista e quindi con la dimensione più intima dell’arte. Così mentre vedevo il video degli sguardi che lentamente si perdevano dentro se stessi di fronte alla statuaria presenza di Marina Abramović ho cominciato a pensare a quanto in fondo l’evoluzione non sia altro che un lungo ritorno al passato e all’essenzialità delle cose. Uno sguardo vale più di tutta la violenza che l’artista yugoslava ha fatto scorrere nelle sue performance e improvvisamente tutto sembra semplice e in perfetto equilibrio. Come se questa perfezione di riflessi fosse la sintesi di un complicato percorso di anni di vita. E poi, non so perché, passo a pensare alla crisi che ci circonda e a come, da sempre, la nostra generazione sia stata educata all’esasperazione, all’illusione del bisogno e, soprattutto, a quella di poterlo soddisfare. La semplicità di quegli sguardi mi ha fatto riflettere sull’essenzialità delle cose e su come spesso si perda di vista quali siano i reali bisogni della vita quotidiana. Poi penso a Zizek e al concetto illuminante della mancanza come fondamento dell’eccesso e di come, di conseguenza l’eccesso stesso sia infinito. Penso a quanti soldi, a quanto tempo e spesso a quante vite stiamo sprecando nel claustrofobico tentativo di rimediare ad errori del passato e riportare le cose così com’erano un tempo. I pensieri generati dalla visioni di un’opera d’arte sono sempre disordinati, si aggrappano l’uno con l’altro come molecole, senza seguire percorsi, lasciandosi guidare unicamente dall’ispirazione. Fino a trovare la sintesi, l’ordine. E così mi rendo conto del paradosso del concetto contemporaneo di evoluzione dove il fine non è più l’eccesso del superare i limiti del tempo. Oggi l’aspirazione è quella di tornare indietro nel tempo. E’ una sensazione che ci circonda, che passa dai centri urbani, dove la lotta non è più renderli accessibili alle auto ma rimediare ai danni delle auto stesse e renderli nuovamente pedonabili, e arriva fino ai paradossi del cibo negli Stati Uniti dove un piatto di insalata costa di più di una bistecca alta tre dita o dove una Coca Cola costa meno di una bottiglia d’acqua naturale. Era veramente necessario il petrolio per arrivare al gpl? Era veramente necessario il nucleare per arrivare alle bio-energie? L’uomo ha veramente bisogno dell’Hammer per spostarsi in città? Indubbiamente. Non posso rassegnarmi alla mia intrinseca anima hegeliana. La sintesi passa per il momento negativo. La coscienza deve affrontare la natura per raggiungere l’assoluto. Così come il giovane aborigeno deve affrontare il wonambi per diventare karadji o, più comunemente, stregone, così noi occidentali dobbiamo raggiungere l’eccesso per renderci conto di quanto ci stiamo allontanando dalla realtà. Ora non mi resta che sperare che il “momento-wonambi” sia passato e che da qui cominci un lungo periodo di involuzione verso la realtà.