Il mio rapporto con le etichette è molto particolare. Potrei definirlo barocco. Una sorta di chiaroscuro caravaggesco. Amore Attivo. Odio Passivo. Amo dare etichette a tutto. Odio qualunque etichetta mi riguardi. Odio essere un caso-tipo. Odio appartenere ad una correte di pensiero. Odio essere parte di una moda. Odio le marche sui miei vestiti. Odio essere etichettato con il simbolo di un partito. Odio essere definito con una professione. Odio essere giudicato a priori. Odio essere considerato un numero. Ma dall’altro lato amo trovare una categoria per tutto. Amo archiviare. Amo che tutto sia al suo giusto posto. Amo l’ordine. Amo le definizioni chiare. Amo la semplicità. Ed ecco che, ironia della sorte, mi accorgo di essere finito ad avere a che fare con la forma d’arte più etichettata della storia dell’arte di tutti i tempi. Mentre archivio gli articoli usciti sulle iniziative di Art Kitchen negli ultimi tre anni mi accorgo che a partire dal Pac, giornalisti e istituzioni hanno definito gli artisti di street art come: urban painter, grafittari, taggers, street artist, writers, artisti, creativi, urban artist, artisti pubblici, public artist, imbrattatori, pop-up artists, stencil-artists, post-grafittari, vandali e spray-artists. Ma penso che questa sia di fondo l’anima più nobile e affascinante della street art, un’arte che sfugge alle istituzionalizzazioni e alle categorizzazioni e che se mai finirà all’interno dei manuali di arte contemporanea occuperà un capitolo a parte.