Gerusalemme si sa, è terra d’illuminazione, umana prima che religiosa. Impossibile uscirne come prima, c’è troppa storia, troppo sangue e troppa vita per non trasformare la mente in una giostra di domande e ispirazioni. Oltre ad un timbro sul passaporto scomodo, ho lasciato il confine di Sheikh Hussein a nord d’Israele con tante domande molte delle quali probabilmente non avranno mai risposta, forse perché non esiste una risposta, ma tante risposte, come tante sono le visioni del mondo. Quello però che Gerusalemme mi ha sbattuto in faccia come un pugno nello stomaco è la consapevolezza che quella che, nella mia visione, forse utopica, di religione, dovrebbe essere la patria dell’amore e della pace è invece la terra dell’odio e della discordia. Una consapevolezza che ti apre gli occhi e ti chiude lo stomaco ma lascia lo spazio ad una verità ancora più grande, la violenza altro non genera che violenza, ma soprattutto, e questo è stato il colpo più basso, l’amore può generare una violenza ancora più cruda e viscerale della violenza stessa.