Sette mesi fa, travolto da un febbrile entusiasmo meta-tecnologico, sono entrato nel profondo mondo del Black Berry attraverso la sua creazione più sublime. Il Black Berry Storm. I primi mesi della mia vita “always connected” sono passati veloci cullato dalla confortante illusione di aver trovato, in un solo oggetto, un pratico contenitore per tutti quei gravosi fardelli che caratterizzano le tasche del mio viver quotidiano. Sveglia, Ipod, Agenda, Email, Taccuino, Internet, Telefono, Macchina Fotografica e Orologio. Tutti in uno, ma, assolutamente non uno per tutti. Svanito il velo dell’eccitazione da primo appuntamento, la mia tecnologica da teschino ha dovuto fare i conti con la bellezza nostalgica del vivere analogico e della sua inevitabile ripercussione funzionale. Così gli ultimi mesi sono stati un lento ma necessario ritorno a casa. Il primo a cedere è stato il taccuino, perché, in tutta onestà, le idee appuntate sul Black Berry invece che sulla carta, non so perché, ma sono molto meno valide. Subito dopo è stata la volta di internet il cui miraggio si è frantumato di fronte alla lentezza, da primi anni novanta, della navigazione. Poi la musica. Troppa poca, troppo bassa e troppo meccanica. L’altra sera è stata la volta dell’agenda. Ci ho provato a usare quella del Black Berry e penso che un po’ la continuerò ad usare ma quando ho ritrovato le mie passate agende bianche con il logo di Art Kitchen in copertina con dentro appunti, numeri, nomi, segni. Non ho resistito. E così anche l’agenda ha fatto ritorno a casa. Infine l’orologio. Crollato inevitabilmente davanti alla bellezza del mio nuovo Hamilton. Resta telefono, che ogni tanto fa le bizze e la mail che, superato il fastidio del continuo “bip” in qualsiasi luogo o spazio io sia, è effettivamente utile. Ciò nonostante, per quanto scomodo, grosso e pieno di applicazioni inutili, il Black Berry è un oggetto o meglio uno status necessario e in quanto tale lo tengo e, insieme a tutto il resto, riempie ogni giorno le mie tasche. Ed ecco che la sua contemporaneità è talmente profonda che non posso non ricollegare il suo essere all’interno di quello che considero una delle caratteristiche principali del nostro tempo. La “sindrome da menù turistico” e la conseguenza assenza sempre più invadente di profondità. Ormai va di moda avere ed essere un po’ di tutto senza poi essere, in sostanza, nulla. Come il mio Black Berry che è un po’ agenda, un po’ cellulare, un po’ macchina fotografica. Così continuo ad incontrare persone che sono un po’ giornalista web, un po’ creativo, un po’ designer, un po’ pr però di fatto avvocato. Un esercito di figure ibride che, nel bene e nel male, contaminano e si contaminano di tutto. Penso che questa sia uno delle maggiori espressioni dell’assoluta precarietà del contemporaneo dove quasi si ha paura di prendere posizioni e di seguire una sola strada. E allora ci si butta e si cavalca l’onda della superficie senza mai scendere in profondità. Così nella mia costante ricerca di una orizzontalità verticale, dopo aver provato quasi tutti i lavori che anche lontanamente mi interessavano, ho deciso di focalizzarmi sulla mia attività e, da bravo hegelocartesiano quale sono, portare avanti i miei obiettivi lavorativi cercando di stare alla larga da qualsiasi menù turistico mi passi davanti.