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CORRENTE

A cura di Jacopo Perfetti.

«Non puoi andare indietro nel tempo e cambiare l’inizio delle cose, ma puoi partire da dove sei e cambiarne la fine.»

- C. S. Lewis

Buongiorno,

questa è Corrente, una newsletter sui fenomeni dell’epoca corrente, oggi parliamo di Hope Labor mentre da settimana prossima comincia la versione estiva della newsletter che non ho ancora deciso come sarà (anzi se hai qualche suggerimento scrivimi) ma avrà meno contenuto.

Buona lettura, Jacopo


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Se dovessimo ripercorrere l’evoluzione dei contratti di lavoro subordinato negli ultimi vent’anni potremmo partire dall’ormai quasi estinto Contratto a tempo indeterminato, per poi passare al Contratto a tempo determinato, poi al Contratto di collaborazione coordinata e continuativa (Co.Co.Co.) o al Contratto a progetto (Co.Co.Pro.), passando poi per una serie infinita di Stage retribuiti o non retribuiti, e poi ancora le sempre più popolari Collaborazioni occasionali a partita iva (dai freelance ai Gig Workers passando per i micro task acquistabili su piattaforme come Fiverr) fino all’estremo della Collaborazione non retribuita.

In questo ultimo stadio evolutivo si inserisce l’Hope Labor ovvero una forma di lavoro, per lo più digitale, retribuita al minimo sindacale o non retribuita, svolta in cambio di visibilità o esperienza.

Oggi si stanno affermando molte tipologie, più o meno sostenibili, di economia. Abbiamo la Gig Economy (l’economia del lavoretto occasionale), la Sharing Economy (l’economia della condivisione), la Creator Economy (l’economia degli Influencer e dei creatori di contenuti digitali), la Shortage Economy (l’economia della scarsità). A queste potremmo aggiungere la “Visibility Economy” o “Barter Economy”, ovvero quel sistema di lavoro che non genera valore economico ma comunque produce asset che contribuiscono allo sviluppo di un determinato sistema economico.

In poche parole: io lavoro per te, tu non mi paghi, ma mi dai visibilità che, si spera, possa tradursi un domani in una qualche forma di valore economico.

Oggi si stanno affermando molte tipologie tra le quali la “Visibility Economy” o “Barter Economy”, ovvero quel sistema di lavoro che non genera valore economico ma comunque produce asset che contribuiscono allo sviluppo di un determinato sistema economico.

In realtà l’Hope Labor non è nulla di nuovo. Da sempre le aziende cercano di far leva sui fornitori o collaboratori per ridurre il Working Capital e trasformare i fornitori in finanziatori coatti senza, ovviamente, pagare loro alcun onere finanziario. Tuttavia questa è una politica che rischia di distruggere valore nel lungo periodo, facendo gravare sui fornitori i costi di produzione e la mancanza di liquidità dell’azienda. Anche perché una persona può lavorare una volta senza percepire un compenso, ma non può lavorare a gratis per sempre.

Per capire meglio come funziona il Working Capital, pensiamo a una spugna. Quando la spugna si gonfia si perde liquidità, perché l’acqua rimane all’interno della spugna. Quando invece si contrae libera liquidità, risorse. Un incremento nel Working Capital riduce le risorse generate dall’azienda (i crediti commerciali e le scorte aumentano, i clienti non stanno pagando e la merce rimane invenduta). Una riduzione nel Working Capital invece implica un incremento del denaro a disposizione della società (si posticipano i pagamenti ai fornitori o, come nel caso dell’Hope Labor, non si pagano affatto).

Di fronte a questi stratagemmi strategici non stupisce che sempre più giovani stiano dando un peso sempre minore al lavoro (perché lavorare se tanto nessuno mi paga o mi paga il minino sindacale?), andando a intaccare l'ideologia fortemente anglosassone del Workism, dell’idea che il cuore dell'identità e dello scopo della vita di una persona sia il lavoro. Da cui, molte altri “correnti” tipiche della nostra epoca come le critiche verso l'hustler culture o la Great Resignation.

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2022_06_15_Waiting-For-A-New-Big-Bang
Muro filosofico #45: “Waiting for a new Big Bang” una frase che ho trovato a Milano e che mi ha fatto pensare alla differenza tra futuro e avvenire.

Abbiamo spesso la tendenza a vedere l’evoluzione della storia come una serie di post-qualcosa. Post-moderni, post-capitalistici, post-industriali, post-ideologici, post-human, post-pandemico, post-bellico… come se il presente e il futuro fosse sempre e solo una continuazione del passato.

Sarebbe interessante invece capovolgere questa prospettiva. Lavorare ogni giorno con l’ambizione di essere pre-qualcosa. Di essere l’inizio di qualcosa e non la fine.
Nel saggio “Un anno sognato pericolosamente”, il filosofo sloveno Žižek sottolinea la differenza tra le concezioni francesi futur e avenir:

Futur significa futuro in senso oggettivo, come un prolungamento cronologico del presente, ovvero qualcosa che accadrà indipendentemente dalla nostra volontà.

Avenir invece, significa futuro in senso soggettivo, come una discontinuità con il presente, ovvero qualcosa che potrebbe avvenire grazie alla nostra volontà di farlo avvenire.

In quest’ottica, il Futuro è un post-concetto, la continuazione di qualcosa che già esiste, mentre l’Avenir può essere l’inizio di qualcosa che ancora non c’è. Una sorta di nuovo Big Bang.

Trovi altri muri filosofici qui.

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Sono Jacopo Perfetti creo robot in grado di scrivere e scrivo cose che i robot non sanno (ancora) scrivere.

Il mio ultimo libro, nonché primo romanzo, è T.E.R.R.A.
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