Corrente #03: MeWorker.

Qualche settimana fa, DEPOP è stata acquisita da Etsy per 1,6 miliardi di dollari facendo la felicità di molte delle persone e dei Venture Capital che ci hanno investito e che hanno avuto ritorni milionari. Tuttavia DEPOP è un caso più unico che raro, tanto che è il solo (insieme a YOOX) Unicorno (inteso come azienda privata con una valorizzazione di mercato superiore al miliardo) che abbiamo in Italia (anche se, e questa è l’ultima parentesi che apro, considero DEPOP una Startup più inglese che italiana, visto che in Italia ci è stata solo un anno).

Il più delle volte le cose non vanno così. In media, di più di mille Tech Companies americane già finanziate, solo il 3% arriva al sesto Round di investimenti e solo l’1% chiude una Exit e viene acquisita. Molte Startup infatti non riescono a fare il salto e, o riescono ad auto-sostenersi, oppure chiudono, bruciando il capitale di chi ci ha investito, ma non sempre quello di chi ci ha lavorato.

Parto da questi dati per introdurti la corrente di oggi, i MeWorker, intesi come Manager o imprenditore che riescono a fare una fortuna nonostante i risultati negativi delle azienda cui sono a capo.

MeWorker: Manager che riesce a fare una fortuna nonostante i risultati negativi dell’azienda cui è a capo.

“MeWorker” è un termine coniato dall’imprenditore, autore e professore Scott Galloway che in una sua newsletter parla di una nuova classe di miliardari americani che sono riusciti a guadagnare considerevoli somme di denaro pur avendo bruciato i capitali dell’azienda o degli investitori.

Per comprendere meglio questo concetto, Galloway introduce due metriche: il Daily Benjamin Burn™ (DBB) e l’Earn-to-Burn Ratio™ (EBR). La prima (DBB) indica quanti soldi un dirigente ha bruciato ogni giorno durante il suo mandato. Il secondo (EBR) indica la percentuale dei soldi bruciati che il dirigente ha dirottato su se stesso, una sorta di commissione sulla distruzione di capitale. In un mercato efficiente ed equo, il rapporto sarebbe pari a zero. Se un manager non crea valore non dovrebbe guadagnare nulla. Tuttavia spesso succede il contrario.

Tra i tanti casi che cita Galloway c’è anche quello della catena di spazi di coworking WeWork e del suo fondatore Adam Neumann. Tra il 2017 e il 2019 il fondo SoftBank ha investito più di dieci miliardi in WeWork, bruciandone circa 9, il che equivale a un DBB di circa 13 milioni di dollari. Tuttavia quando Neumann è stato licenziato, nel settembre 2019, è riuscito ad avere un “risarcimento” di circa un miliardo, ovvero un EBR dell’11%.

Questo fenomeno intercetta un altro trend tipico della nostra epoca: l’aumento esponenziale del delta tra il salario medio di un lavoratore dipendente e quello di un manager. A partire dagli anni Novanta questo divario è aumentato esponenzialmente. Come riporta Jeremy Rifkin nel suo saggio La Terza Rivoluzione Industriale, nel 1980 i CEO delle principali imprese americane guadagnavano 42 volte il salario del lavoratore medio, nel 2001 questo rapporto era salito a 531:1. Ancora più stupefacente è il fatto che, tra il 1980 e il 2005, oltre l’80% dell’aumento dei redditi da lavoro rilevato nel Stati Uniti sia finito nelle tasche dell’1% più ricco della popolazione e questo a contribuito ad acuire una disuguaglianza economica e sociale per cui già nel 2007 all’1% più ricco degli americani faceva capo il 23,5% del reddito ante imposte nazionale, contro il 9% del 1976.

Sono numeri impressionanti che si possono (forse) spiegare guardando un altro dato: il rapporto tra aumento medio dei profitti per le aziende e aumento del salario medio. Fatta eccezione per il 2008, negli ultimi decenni i profitti delle aziende sono aumentati molto velocemente, mentre i salari sono aumentati in maniera molto più contenuta. Ovvero le aziende hanno, in proporzione, guadagnato molto di più di chi ci ha lavorato. Questo a beneficio di CEO e azionisti.

La soluzione quindi potrebbe essere di stampo qualitativo e non quantitativo. Non servono più soldi, ma servirebbe distribuirli in maniera più equa.